Volere è dovere

Ci ho pensato notando come le mie colleghe, ma anche milioni di altre persone, usano spesso il verbo potere nella sua forma negativa riferendosi a cose che non si devono o non si dovrebbero fare, tipo “Non si può mandare un’email di questo tipo alla tal persona nella tal posizione”, o “Non puoi rispondere così al telefono”, “Non posso andare a casa facendo finta di niente, anche se il mio orario di lavoro è finito” e avanti così all’infinito. Fanno riferimento a regole, di solito non scritte, di politically correctness, di cosiddetta buona educazione (poi che sia buona è tutto da vedere…), spesso di autosottomissione allo schiavismo veneto quando si parla di lavoro (ma questo è un altro discorso ancora).
Sento usare il verbo potere anche quando qualcuno vuole rammentarmi una serie di noiosissime regole, tipo “Non si può bere il vino rosso col pesce”, o quando ci si lamenta dei tanti divieti dicendo “Non si può fare mai niente!”

Nel dizionario, il significato 2 del verbo potere è Avere il permesso, la facoltà di fare qlco.; essere autorizzati. Questo secondo significato entra spesso (quasi sempre) in conflitto con il significato 1, che è Essere in grado di fare qlco., avendone la capacità, la forza. Il significato 2 è astronomicamente distante dal significato 1; piuttosto, assomiglia molto di più alla definizione di dovere: “Non devi rispondere così al telefono”, “Non devo andare via facendo finta di niente”, eccetera eccetera.

Come siamo passati a parlare di non potere anziché di non dovere, a usare la stessa parola confondendo ciò che è vietato con ciò che è impossibile? Perché in effetti non ci sono leggi contro le cose impossibili, d’altra parte non ce ne sarebbe bisogno: “Non devi essere trasparente”, “È vietato cavalcare unicorni” sono norme che non hanno ragion d’essere, dal momento che infrangerle sarebbe fisicamente impossibile.

Usare non potere anziché non dovere crea una conflittualità non indifferente all’interno del potere stesso e dei suoi significati: io posso (sono in grado di) fare qualcosa che non posso (non sono autorizzato a) fare, oppure non posso fare qualcosa che posso fare (nel caso qualcuno mi desse l’autorizzazione a cavalcare unicorni, per esempio).

In realtà questa conflittualità nasconde in sé un preciso progetto (dell’inconscio individuale? di un inconscio collettivo? di chi ha inventato le regole o il linguaggio?) di confondere le due cose: non potere mi solleva da qualunque possibilità di scelta, dal momento che non posso potere l’impossibile. Il verbo dovere o i termini vietato, divieto e così via, mi pongono invece di fronte alla decisione di rispettare o meno una regola, e di fatto a chiedermi, in molti casi, se è sensata, se non è controproducente o dannosa, se è necessario rispettarla, chi me lo fa fare a farlo, eccetera. Ci sono miriadi di regole (spesso non scritte) ereditate da vecchie superstizioni, che nel migliore dei casi non servono a niente, di cui nessuno sente il bisogno, che anzi molti vorrebbero contravvenire ma si bloccano di fronte all’enunciazione di una impossibilità: non posso farlo.

Tutto questo è solo un’accampare scuse per non fare qualcosa che non si vuole o non si ha il coraggio di fare cercando di far ricadere la colpa su un qualche indefinito legislatore. Volere non è più potere, se il dovere prevale sulla volontà. E, dall’altro lato, rispettare una regola che si vuole rispettare non dovrebbe essere motivo di vergogna, quindi perché non prendersi il “merito” della scelta?

 

A questo punto non posso concludere il post senza una conclusione efficace e a effetto. Ma siccome è proprio quello che voglio, è anche quello che farò, in questo momento.