Il senso della vita

Ho scritto questo articolo nel lontano 2007 in un blog che sta per morire definitivamente, e non sempre la morte è un avvenimento sbagliato. Comunque alcuni post tornano sempre d’attualità. E questo lo sarà finché esiste l’uomo:

Capita a volte che ci si interroghi su domande di vita elementari nella loro formulazione, la cui risposta è terribilmente lontana: Essere o non essere? Qual è il senso della vita? Perché questo mondo a volte sembra così sbagliato? Dio esiste? Qual è il participio passato del verbo soccombere? Succede qualcosa dopo la morte?

Guadagnarsi da vivere

Ci sono locuzioni che spesso usiamo normalmente senza pensare alla portata del loro significato. A volte mi piace soffermarmi a pensare a queste. Una è, ad esempio, “guadagnarsi da vivere”.

Mi fa tornare indietro con la memoria a quando, a noi bambini, si chiedeva “Cosa vuoi fare da grande?”, domanda che più banalmente si poteva tradurre in: “Che lavoro vuoi fare da grande?” Non era una domanda volta a conoscere semplicemente delle attività che il bambino avrebbe voluto fare da grande, e lo si capisce dalle riposte che venivano inculcate a questi bimbi e che poi ripetevano a memoria: chi rispondeva “il pompiere”, “la hostess”, “l’avvocato”, “il poliziotto”… io, non avendo obiettivi professionali, non sapevo come rispondere. Per quanto ci fossero cose che effettivamente da grande avrei voluto fare, ad esempio volevo capire il funzionamento dei buchi neri, programmare un gioco per il computer e giocare a calcio, non ero sincero nel dire che avrei voluto fare “l’astrofisico”, “il programmatore di giochi per PC” o “il calciatore”.

È un meccanismo attraverso il quale il nostro desiderio, la nostra ambizione, la nostra passione, vengono indissolubilmente legati al bisogno di guadagnarsi da vivere. Sostanzialmente già da piccoli si finisce ineluttabilmente per collegare le attività, la vita stessa, con il denaro, e di conseguenza il denaro e le attività che si svolgono per guadagnarlo con la persona.

Non è così tragico, se si pensa che il lavoro e il denaro sono ineluttabili e se si considera che poter svolgere una professione che piace suona più come una fortuna che come una condanna. Ancora, quasi tutti noi occidentali possiamo chiamarci fortunati perché stiamo ancora, nonostante tutto, guadagnando più che da vivere: ci guadagnamo Sky, le birre con gli amici, la gita all’estero, l’iPhone, l’ADSL… tutte cose che vanno ben oltre la mera sopravvivenza.

Ma, tornando nel seminato e tornando alla mia vita, qui lo dico e qui lo nego, e lo nego con forza, disgusto e digrignando i denti: Io da grande voglio fare lo scrittore. Scrivere è la cosa che mi piace di più al mondo, perché scrivere non è solo lasciare inchiostro su carta. Scrivere è un momento spirituale: costruisce un ponte fra dimensioni, perché scrivendo si creano mondi, persone, situazioni, accadimenti dal nulla semplicemente tramite l’ispirazione e la fantasia. Perciò anche ascoltare musica, guardare un film, conoscere una persona, assistere a un momento di vita, in realtà qualsiasi cosa induca un’ispirazione e stimoli la fantasia, è scrivere.

E scrivere, con tutto quel che concerne, mi piace. Oh sì! Se penso alla possibilità di potermi dedicare a questa attività a tempo pieno anziché in ritagli serali o nel weekend e senza preoccuparmi della sopravvivenza, cioè di come racimolare il denaro che serve per compare il pane – carburante per il motore che muove la penna, perché questo bisogno viene soddisfatto proprio grazie al frutto di questa passione, beh, sembra veramente qualcosa di grosso, qualcosa che avrebbe del miracoloso.

Eppure stride. Stride, c’è qualcosa di grossolanamente sbagliato in tutto questo. C’è che quando siamo nati non abbiamo pagato una tassa d’ingresso a Dio* o a Madre Natura né ci è stato dato un prestito per poter iniziare l’attività. E quando moriamo non ci viene restituita nessuna cauzione né ci viene presentato il conto del soggiorno.

In natura la vita non ha alcun tipo di collegamento con il denaro, né il denaro lo ha con la vita. Il denaro non è causale di vita, perciò vendere giorni di vita e di sopravvivenza (due cose terribilmente lontane eppure vicine) per denaro è un’orribile atrocità e un bieco e perverso sopruso.

E come il denaro, la scrittura non è causale di vita. Ecco perché nego, nego assolutamente, di voler fare lo scrittore, da grande: io non voglio guadagnarmi da vivere attraverso la scrittura, io voglio vivere e scrivere**. E non mi accontento: voglio vivere nei mondi che credo, con le persone che invento, con tutta quella musica e quell’arte che mi ha ispirato come parte integrante dell’aria che respiro.

Legare la creazione di mondi fantastici e personali alla vita e alla sopravvivenza nella realtà attraverso la morsa del denaro sarebbe una grottesca condanna. Però bisogna fare i conti con la realtà, e la realtà è*** che, per quanto possa rifugiarmi in mondi immaginari, sono fatto di carne e ossa e appartengo al mondo reale, sono reale e in quanto tale ho bisogno di mangiare, di bere, di soddisfare i vari bisogni e questo passa necessariamente attraverso il denaro o comunque un lavoro, perché questa è la realtà.

Ma a me la realtà non interessa. Non è di mia competenza, non mi riguarda.

Non sono ancora arrivato a creare mondi stabili e durevoli nel tempo, per ora durano al massimo qualche mese: mesi fantastici, di alienazione dalla realtà. Cose da pazzi? Ma l’obiettivo definitivo e totale è proprio questo.

Cosa voglio fare da grande?

Ecco la mia più grande ambizione professionale, ora ho deciso: voglio diventare pazzo! Estraniarmi totalmente dal mondo reale, togliere le radici da un mondo in cui la possibilità di sopravvivervi sia legata al possesso del denaro. Lavorerò per questo, sto già lavorando per questo. Voglio diventare pazzo. Oh sì! La pazzia, la pazzia sarà il mio modo di guadagnarmi da vivere, di guadagnare la mia vita!

 

* Credere o meno in Dio non cambia il filo del ragionamento: qualsiasi sia la causale sondabile o insondabile della vita, essa non è legata al denaro.

** Con particolare riferimento alla dipendenza della seconda rispetto alla prima.

*** Cosa possa essere veramente reale e in che dimensione, e quanto la realtà dimensionale conti all’interno del “tutto”, dovrebbe essere considerato in un altro articolo.

Blue Lagoon

Buoni propositi per l’anno nuovo. Nuovo… è già vecchio di due mesi, ma i propositi (se i maya (o, più precisamente, quelli che speculano sui calendari maya) lo permetteranno) non valgono mica solo per il 2012.
Comunque ho deciso: basta viaggi! I viaggi costano troppo, persino Ryanair non è più come una volta. E poi, dai, diciamocelo! Sto invecchiando, alla mia veneranda età viaggiare con Ryanair è scomodo. Viaggiare in economy, foss’anche con un’altra compagnia aerea, è scomodo ugualmente. E la business class non me la posso proprio permettere. Eh no!
Aggiungiamoci che da quattordici mesi non ho un lavoro economicamente remunerato, ma non è questo il punto.
Il punto è che i posti che volevo vedere li ho visti tutti (a parte l’Australia, la Nuova Zelanda e la Polinesia), non ho più stimoli, sono vecchio, rassegnato a marcire in qualche posto inappagante.
E allora ecco la mia decisione, sottoscritta anche con un cinguettio su Twitter, ormai presa e irrevocabile: Basta viaggi, da ora in poi investirò i miei futuri risparmi per farmi una cultura di cocktail (alcolici, se no che cultura è?!).
Li proverò tutti, uno alla volta (a costo di viaggiare fino in capo al mondo per provarne di nuovi), ne imparerò ogni singolo ingrediente e la quantità, ne scoverò i segreti, sarò un’enciclopedia alcolica (e alcolizzata), sarò addirittura capace di inventare i cocktail più buoni al mondo!

E poi aprirò un cocktail bar e farò cocktail per il resto della mia vita.

 

NO.

 

No no no no, non ci siamo capiti! Cioè io dovrei passare il sabato sera a preparare cocktail?! No, veramente non ci siamo capiti: i cocktail li voglio BERE IO!

Una differente concezione del tempo

“Hanno messo pioggia per domenica”
“Chi?”
“Come chi? Quelli del Meteo!”
“Ah! E dove l’hanno messa?”
“…”
“…”
“Beh… qui!”
“Qui dove? In salotto?”
“Ma no! Che hai capito? Qui in Veneto!”
“Cioè quelli del Meteo hanno preso la pioggia, l’hanno messa via da qualche parte non meglio precisata del Veneto e la conservano per tirarla fuori domenica?”
“No!”
“No?!”
“Non hai capito niente!”
“No, infatti. Non ho capito perché queste persone prendono la pioggia e la mettono via!”
“Ma non è che la mettono via, la mettono e basta!”
“La mettono e la lasciano lì? E poi come fanno a essere sicuri che domenica la trovano ancora?”
“Ma infatti non è che la devono trovare. Domenica cadrà da sola”
“Ah! OK! Ho capito! Domenica pioverà”
“Esatto”
“Perché quelli del Meteo l’hanno messa dove dovevano metterla”
“…”
“Cioè in Veneto”
“…”
“Immagino in cielo. Quindi, correggimi se sbaglio, al Meteo si fa questo lavoro di stoccare la pioggia in cielo”
“…”
“Sulle nuvole”
“…”
“Chissà come fanno! Forse con degli aerei cargo speciali per le consegne in volo?”
“…”
“E io che mi sono sempre chiesto perché piovesse e chi lo decide!”
“…”
“Beh, gran bel lavoro, questo di lavorare al Meteo! E chissà quanto li pagano, per prendere decisioni così importanti, tipo come, dove e quando pioverà”
“…”
“Sai che ti dico, Erminia? Lo sapevo di aver sbagliato mestiere!”

L’ultima frontiera del rompipallismo telefonico

Squilla il telefono di casa. Non ci si chiede più nemmeno chi è, ci si chiede solo che cosa cercheranno di venderti nei prossimi due minuti. Perché siamo nel terzo millennio, siamo nel futuro, e quello che una volta era futuro oggi è passato. Gli SMS? E chi li manda più? I cellulari sono connessi a internet. Il telefono fisso? Per chiamare gli amici c’è il cellulare, il VoIP, la telepatia. Il fisso serve solo per il telemarketing.
E allora rispondiamo al telefono. Chi sarà mai? Una compagnia telefonica? Di solito sono loro ma… se fossero quelli dell’energia elettrica? Quelli del fotovoltaico? Qualcuno che vuole vendermi casa mia?
Oggi è toccato a Infostrada. Sì, come venerdì della settimana scorsa, perché loro pensano che noi clienti siamo così volubili da cambiare gestore telefonico due o tre volte al giorno.
Però oggi Infostrada mi ha sorpreso, perché non mi ha proposto un piano tariffario che conviene solo a loro né mi ha chiesto come mai li ho abbandonati da due settimane. No, oggi mi hanno proposto una vacanza!
E io avrei proprio bisogno di una vacanza, oh sì! Per avere una vacanza in regalo (no, in realtà era un prendi 2 paghi 1 (che sarebbe anche 1 e mezzo)) ho persino accettato di comprare 50 euro di vini da una cantina che ora mi perseguita per farmi acquistare bottiglie che non berrò mai in quanto già sbronzo di birra (e si sa quanto mischiare faccia male allo stomaco!) o superalcolici vari e proponendomi regali totalmente inutili come un “elegante orologio da polso” che non indosserò mai, talmente bello da provocare un orgasmo, a detta dell’operatrice che ha cercato di infilarmelo prima in una cassa di vini da 150 euro, poi in una da 120 euro e infine in una da 80 euro. Io fra l’altro la vacanza dei vini la devo ancora fare. E devo ancora finire di bere i vini che ho preso la prima volta per ottenere la vacanza.
Passino i vini, allora, ma perché mai Infostrada mi offre una vacanza anziché un’ADSL super lenta o la possibilità di chiamare tutto il mondo al costo di un solo occhio della testa?!, mi chiedo mentre la fastidiosa voce dell’operatrice (dotata di un velato accento da Europa dell’Est: evidentemente è una del KGB) blablableggia incessantemente al fine, più che mai lampante, di stordirmi.
E fra le tante parole a vanvera ecco anche la risposta alle mie domande esistenziali nuove di zecca: “Se mi dà i numeri di telefono di cinque suoi amici che potrebbero essere interessati a Infostrada e uno di questi diventa un nostro cliente lei vince una vacanza…” chissà dove, mi chiedo io. “… in Italia…” (Snort!) “… per due persone, e può comodamente usufruirne quando vuole lei e con chi vuole lei, bla bla bla”
Faccio subito mente locale se ho qualche nemico giurato o qualche parente serpente che voglio vendere affinché sia perseguitato da Infostrada (o dal KGB, ma credo sia la stessa compagnia, vero?), ma purtroppo per la mia vacanza vado d’accordo con tutti e non odio nessuno a tal punto.
“Non ho amici interessati a Infostrada”, rispondo. L’omertà prima di tutto!
Ma l’operatrice insiste, sciorinando leggi e fenomeni di mercato vari: “Bla bla bla… vacanza… bla bla bla… solo uno… bla bla bla… elenco telefonico… bla bla bla”
“No, grazie”, rispondo io imperterrito.
“Ma bla bla bla!”
“Non sono interessato”
“Bla bla bla!”
“No, veramente. Non voglio darle nessun numero”
“Lei non capisce, bla bla bla”
“Ho detto di no, grazie lo stesso”
“Ma bla…”
Ecco, alla fine l’ho anche perso, il conteggio dei bla. Però non ho ceduto, amici miei! Il KGB ha cercato ripetutamente di estorcermi informazioni, ma io non faccio la spia, nossignore! Soprattutto non per i comunisti!

P.S.: Non è che qualcuno di voi era interessato a Infostrada, vero?

Football vs Football

E rieccomi tornato, non solo sul blog, ma anche tornato geograficamente in patria dopo una permanenza di tre mesi negli States.
Come di solito si fa di ritorno da un’importante esperienza di vita, è l’ora di tirare le somme. So già che molte persone mi faranno la solita domanda che alcuni hanno già cominciato a fare: “Meglio qui o lì?”
Voglio perciò fare un annuncio ufficiale rivolto a tutti quelli che hanno intenzione di farmi questa domanda tendenziosa e razzista: Potete trovare la risposta a questa domanda qui di seguito, quindi è inutile farmela ugualmente.

La risposta alla domanda in questione è questa: Non ci sono posti o popoli migliori o peggiori. Come in qualsiasi altra parte del mondo, ci sono lati positivi e negativi. Gli americani sono oggettivamente migliori di noi per alcune cose, oggettivamente peggiori di noi per altre, e semplicemente diversi nella maggioranza degli aspetti, che dipendono dai gusti e dalle abitudini di ognuno.
(Per noi intendo, eccezionalmente in questo post, gli abitanti della penisola italica circoscritta a nord dalle Alpi)

USA BATTE ITALIA

1. Il prezzo dell’iPhone è decisamente più basso in America.
2. Il prezzo della benzina è imparagonabile: a New Orleans costa all’incirca 0,60 euro al litro. Praticamente un terzo di quanto – mi giungono cattive notizie al riguardo dall’Italia – è arrivata a costare la benzina alla fine del 2011 da noi. È vero, la qualità è inferiore, ma non basta a giustificare la differenza di prezzo.
3. Sono più bravi di noi a fare la guerra (il che spiega il punto 2). E te accorgi subito: mentre in Italia l’evento sportivo più importante è la partita di calcio Nazionale Cantanti contro Nazionale Piloti, negli US sono Esercito contro Marina a disputare l’atteso match di football, a dimostrare quanto gli americani siano affezionati ai loro soldati.
4. Apprendono molto in fretta, con la velocità di un neonato. Infatti, come un neonato non sa niente e quindi assimila in fretta le informazioni, così anche gli americani, non sapendo niente e pertanto avendo tanto spazio nel cervello, non hanno difficoltà a stoccare nuove informazioni. Per esempio hanno imparato molto rapidamente che:

– l’italiano esiste, ed è anche una lingua, oltre che una cucina (di recente un uomo mi ha confidato quanto sia stato eccitante apprendere che esiste una lingua chiamata “italiano”);
– in Veneto parliamo due lingue, e nessuna delle due è l’inglese;
– lo spagnolo si chiama così perché proviene dalla Spagna, e non dal Messico;
– Cristoforo Colombo era italiano, non spagnolo;
– Amerigo Vespucci era italiano;
– il mio nome è troppo difficile da pronunciare.

Le loro capacità di apprendimento mi hanno entusiasmato, lo devo ammettere. Insegnare queste cose a menti così reattive dà una soddisfazione particolare. Un po’ come insegnare alla Normale di Pisa.
5. Hanno un particolare talento nel produrre rifiuti e nell’inquinare. Infatti usano mediamente una borsa di plastica per ogni articolo acquistato al supermercato – e naturalmente stiamo parlando di borse di plastica, non quel “materbio” che va di moda ora in Italia – tengono accesa la macchina senza alcun motivo – vabbè che la benzina costa poco… – e per non rimanere senza comprano un sacco di cose in più di quelle di cui hanno bisogno, per poi ovviamente buttarle.
6. Apprezzano il mio stile nel vestire.

ITALIA BATTE USA

Mi viene in mente che noi abbiamo la Venezia originale (ma è in Veneto) mentre loro una squallida imitazione. Scrivere altro sarebbe come sparare sulla Croce Rossa.

DE GUSTIBUS NON DISPUTANDUM EST

1. Gli americani hanno badilate di nomi. Innanzitutto sono minimo due a testa. Io ai miei figli darò almeno tre nomi (io stesso ne ho tre), quindi questa cosa di avere tanti nomi in America mi piace. Però può anche non piacere. Ma ancora di più mi piace il fatto che in America i nomi si possano inventare. In realtà basta inventare una combinazione di suoni che risulti piacevole ai genitori et voilà, un nuovo nome è coniato! OK, forse è più difficile ricordarsi un nome o azzeccarne la pronuncia corretta, ma almeno non si è costretti a usare il solito, consunto, range di nomi.
2. Una cosa che io invece non capisco degli americani è il loro rapporto con la birra. Non ritengo il mio pensiero superiore a loro, è diverso e accetto questa diversità. Io sono leggermente delicato in fatto di birre: se una determinata birra mi piace, la bevo più che volentieri, se non mi piace piuttosto bevo acqua (o, per essere sincero, mi butto su qualche cocktail o una Sambuca, che non mente mai). Le birre sono tante, e ovviamente non le conosco tutte. Quando devo assaggiare una birra nuova per il mio palato fra tante mi baso su varie cose per decidere quale. Certo che il fatto che affianco al nome sia scritto “strong” è un fattore spesso determinante. Per me, per la mia cultura, per come sono stato abituato al pub coi miei amici, “strong” è qualcosa di pregevole, attraente, un valore aggiunto. Invece gli americani (che già vanno matti per porcherie zuccherate, gasate e soprattutto analcoliche) hanno, invece che strong, la versione light di ogni birra. Inconcepibile! Ma se a loro piace così…
3. E poi c’è il football. Ah, il football! Il football è lo sport preferito in quasi tutto il mondo. Solo che il football che gli americani amano è decisamente diverso dal football che il resto del mondo ama.
Per chi non lo sapesse, il football americano è una specie di sport, il più diffuso negli States, ad alto contenuto spettacolare, dove in un campo rettangolare si formano accozzaglie subumane il cui scopo da una parte è quello della conquista territoriale, atta ad avvicinarsi sempre di più alla meta, il touch down, dall’altra ovviamente tenere il nemico il più lontano possibile, impedendogli di conquistare in massimo quattro tentativi un minimo di dieci yarde. Lo spettacolo consiste nella fisicità di questo sport. Da una parte si cerca con la forza di impedire l’avanzata avversaria e al quarterback il lancio, dall’altra si deve proteggere il quarterback dalle orde nemiche e, qualora fosse necessario aprirsi varchi con la forza (per spiegazioni più esatte andate su Wikipedia o in un qualsiasi altro sito di sport).
Ci sono delle cose del football che non riesco a spiegarmi, ad esempio il nome: perché football se si può usare il foot (cioè il piede) solo ogni tanto, e solo da parte di un giocatore per squadra?! Alcuni americani hanno provato a spiegarmelo così: I piedi si usano per correre. Ho risposto: Allora appendiamo una palla all’asta e chiamiamo football anche il salto in alto.
E poi ci sono quelle sottili differenze che però rendono i due football così diversi. Per esempio il tempo. Una partita di calcio dura 90 minuti più recupero, diciamo un centinaio di minuti effettivi, se aggiungiamo cinque minuti di prepartita con le squadre che scendono in campo, fanno la foto di rito e si scruta la formazione, l’intervallo e qualche altro minuto di post partita in cui l’arbitro prende solitamente le botte, nel giro di un paio d’ore lo spettacolo è iniziato e finito.
Una partita di football americano dura 60 minuti di gioco semi effettivo. Per vedere l’unica partita che ho visto per intero ci ho messo tre ore e mezzo, forse anche di più. Facendo quattro calcoli a spanne: un’ora di gioco, metti una mezz’ora fra replay e cambi di campo vari, rimangono due ore in cui in campo le cheerleaders facevano qualche balletto o qualche numero, mentre io da casa (di un altro) mi sono sorbito solo tanta pubblicità.
Ma d’altra parte agli americani piace questa fusione fra sport e apprendimento.
Un’altra cosa che agli americani piace fare è esultare: esultano per qualsiasi evento, e per esultare non intendo un’approvazione pacata, intendo urla e schiamazzi. Tipo quando nel calcio si segna un gol. Solo che loro esultano per un first down (cioè l’aver guadagnato le famose 10 yarde) nella propria metà campo. Un po’ come se noi esultassimo per un calcio di punizione in difesa.
Infine c’è il fatto delle giovanili: in Italia abbiamo un campionato Primavera che non caga nessuno, in America un campionato con le selezioni dei migliori giocatori delle università e dei college di ogni stato, un campionato che è seguito tanto quanto quello professionista, esultanze rumorose e immotivate comprese. Sto provando a pensare al parallelo italiano, ma non mi ci vedo a fare tutto quel casino per un calcio di punizione in difesa guadagnato al 20′ del primo tempo dall’Inter Primavera.

Ora mi arrabbio

Non capisco. Proprio non capisco cosa stiamo cercando di ottenere. Perché se l'obiettivo è di abbandonare il catenaccio-contropiede per fare calcio spettacolo come il Barcelona, beh, non siamo il Barcelona. E si vede: la manovra è lenta, macchinosa e prevedibile. E se questo si può anche in parte scusare con fatto che abbiamo un allenatore nuovo, non si può assolutamente scusare che una squadra come l'Inter non sia nemmeno capace di imbastire un contropiede quando se ne presenta l'occasione.
L'Inter ruba palla in difesa, la sfera dopo due o tre tocchi arriva a Coutinho che non può resistere alla tentazione di fare un balletto e ciondolare intorno alla palla almeno cinque volte prima di fare un passaggio, che metà delle volte è sbagliato. Sembra che se in un'azione almeno otto giocatori dell'Inter su dieci non toccano la palla, essa non può essere consegnata a Eto'o sperando che ci pensi lui in qualche modo: se la tattica dev'essere proprio questa almeno la palla dategliela in fretta.
Biabiany… beh, Biabiany, lui è velocissimo, e la sua velocità è teoricamente perfetta per i contropiedi. Peccato solo che abbia i piedi quadrati e nonostante la sua velocità ci vuole quasi mezzo minuto prima che succeda qualcosa quando la palla arriva a lui. E di solito è un retropassaggio a un compagno marcato.
Pandev non è decisamente all'altezza della maglia che indossa. Vorrei poter suggerire a Benitez di far giocare al posto suo in ala Davide Santon, ma a quanto pare gli infortuni di Maicon e Samuel costringeranno l'allenatore a metterlo in campo come terzino (trovo strano che non sia bastato quello di Maicon a convincere Rafa a metterlo in campo). Certo, se poi è supportato in fascia da Lentinho che annulla le sue percussioni…
E Sneijder? Forse non è in forma come lo scorso anno, ma come può fare le sue geniali aperture se invece di esserci giocatori che attaccano gli spazi tutti aspettano impalati che la palla arrivi a sua cincischiaggine Coutinho?!
Chivu terzino sinistro è l'anello debole della difesa e dell'attacco sulle fasce, ma forse questo è attualmente il problema minore.
A tutto questo aggiungiamo che Maradona a quanto pare ha convinto Milito che è un pessimo attaccante e una novantina di infortuni, e quel che rimane è una squadra che tatticamente brancola nel buio, che è stata umiliata da un solo giocatore non più di quattro giorni fa e che ha rischiato di perdere persino contro una squadretta che non ha fatto niente per vincere.
Urge far chiarezza sulle capacità intellettive di Rafa Benitez. Urgono rinforzi di mercato. Perché, nostalgici di Mourinho o no, ci siamo spinti in una direzione in cui si può solo peggiorare.

P.S.: Si è capito che oggi ce l'ho con Benitez e con Coutinho?

Tecniche di ringiovanimento esadecimale

Cos’ha il 30 di diverso rispetto al 29 o al 31?
Ne ho parlato (anzi, chattato) pochi minuti fa con un ventottenne terrorizzato all’idea che fra due anni entrerà negli -enta. Certo, fra due anni avrà due anni in più di oggi, questo fa parte dell’innegabile e inevitabile decorso del tempo sul pianeta Terra e certo, a trent’anni sei più vecchio che a ventotto e dato che una volta passati i diciannove nessuno aspira ad aumentare la propria età (eccetto negli U.S., dove si aspira fino ai 21, età per bere in santa pace e serenità) avere trent’anni piuttosto che ventotto non interessa a nessuno.
Ma allora cos’è che rende così funesti i trenta, e peggio ancora i quaranta, anni? Perché non lo sono altrettanto i ventinove o i trentuno anni? Perché si accetta con più serenità il trentaduesimo compleanno che non il trentesimo?
Perché a trent’anni si entra negli -enta, mentre a trentadue mancano ancora otto per gli -anta, troppo presto per pensarci e farsi molte paranoie.
E questo è ovvio, scontato e banale: si concludesse qua, questo post non avrebbe senso (no, perché invece proseguendo il senso ceeeeerto che ce l’ha!).

La domanda è: Qual è il vero motivo di questo paradosso psicologico?
Cause e concause del fenomeno devono ricercarsi nell’educazione in base dieci che riceviamo. Sin da piccoli ci hanno insegnato a contare – e non solo: a ragionare – in base dieci. È vero, il tempo lo scandiamo in basi sessanta, ventiquattro eccetera, però guarda caso usiamo numeri e cifre che si basano sul sistema decimale inculcatoci con tanta leggerezza sin dalla tenera età. Praticità? Cultura? Tradizione?

Ora, trentenni, provate a riformulare la vostra età con numeri esadecimali (se non sapete cosa significa sistema numerico esadecimale potreste scrivermi e aspettare una mia risposta OPPURE, come ha fatto il ventottenne di cui sopra, andare a leggervelo su Wikipedia): la vostra età è 1E. Un numero esadecimale come un altro, praticamente.
E voi, quarantenni avviliti e terrorizzati per essere entrati nella lunga era dei famigerati -anta, ricalcolate la vostra età: 28. E non vi mancano solo due anni per arrivare ai 30, ma bensì otto (gli stessi che mancano a un trentaduenne per arrivare a quaranta), otto lunghissimi e felicissimi anni. Pensate che avrete 40 anni solo quando compirete sessantaquattro anni di vita.

Non cambia letteralmente la vita un modo di pensare esadecimale?

CONSIDERAZIONI PSICOSORRISOLOGICHE

Anche se lo scorrere del tempo rimane oggettivamente identico qualsiasi sia la base numerica in cui lo calcoliamo, la “diluizione” delle tappe che influenzano il nostro umore vanno a incidere in senso positivo sia per giovani che meno giovani: si consideri l’opportunità per un ragazzo di raggiungere la maggiore età (e la patente!) a soli 12 anni e l’atteggiamento di un uomo che, dopo mezzo secolo di vita, ha la percezione di avere ancora tante energie avendo solo 32 anni. La percezione parallela (no, non chiamiamola distorta!) della realtà stimola la mente a pensare in modo ottimistico, e chiunque si rende conto di quanto l’ottimismo influisca positivamente sulla vita di tutti i giorni.
È proprio vero: l’ottimismo è il profumo della vita!

COROLLARIO CINICO

L’incedere del tempo vi consumerà in egual maniera. Che pensiate di avere 50 anni (decimale), 32 anni (esadecimale) o 110010 anni (binario), la realtà è che siete nella fase discendente della vostra vita e che, se non fate parte di quello 0,019% di popolazione italiana che supera il secolo (dei quali solo il 17,6% è di sesso maschile), avete davanti meno vita di quella che avete già vissuto.
E ricordate che l’imprevisto è sempre in agguato!

IMPLICAZIONI GROTTESCHE

Il lato grottesco della faccenda è morire di vecchiaia a 64 anni.
Con tanti complimenti da Gerry Scotti, per di più!

Il (bar) Veneto ai veneti! (ma anche no)

Farsi uno spritz al bar oppure un rabosello o un prosecco, diciamocelo, è una faccenda squisitamente veneta.
E mio fratello me l’aveva promesso: "Ci facciamo un giro a Treviso a bere raboso?", aveva proposto per sfruttare al meglio il tempo che sarebbe intercorso fra il suo arrivo (VCE-Tessera, all’incirca le 16:30) e quello di Mara (TSF-Canova, 18:50 o giù di lì), obiettivi primari della mia Missione: Taxi del 01.04.2010.
Il bar, il primo bar che troviamo entrando in una strada a caso che dovrebbe secondo indicazioni portare a Treviso, è un bar tipicamente veneto: brutto, smalfaro, trato là, senza nulla di estetico che ti invogli ad entrare, solo la consapevolezza che dentro troverai vino: insomma, proprio quello che cercavamo.
Entriamo carichi di speranza e passione, ma non appena varchiamo la soglia non siamo noi a porci spontanea una domanda, ma è la domanda a porsi spontanea a noi: "Che cavolo ci fanno i cinesi a gestire un bar veneto?!" Perché il bar anche dentro è veneto, ma proprio veneto del Veneto. Ma i cinesi… che c’entrano queste due cinesi con il nostro bar veneto?
Comunque si era detto raboso e raboso sarà. Frastornato e disorientato riesco ad ottenere l’attenzione della tipa e le faccio: "Mi togo un raboseo" (perché dentro a un bar veneto in Veneto mi aspetto che anche le cinesi parlino veneto!)
Candida la risposta della cinese: "Eh?!"
"Un rabosello", scandisco ponendo enfasi sulla doppia elle, prima totalmente ignorata come buon costume veneto comanda.
"Non teniamo labosello"
Guardo mio fratello: bar veneto gestito da cinesi, non hanno nemmeno un rabosello… ma che bar è?! La delusione riempie i nostri occhi. Ma non demordo e chiedo che altri vini hanno. Non è facile spiegarle il concetto, ma infine capisce e: "Ploseccoooo, velducciooooo…"
OK, vada per il verduzzo. Un verduzzo per me e uno spritz per mio fratello, ci sediamo in un tavolo smalfaro come il bar e sfogliando la Gazzetta e sgranocchiando patatine e arachidi commentiamo la grottesca situazione delle cinesi nel bar veneto.
I bar veneti ai veneti!, questa è la sentenza, e anche quando parliamo di Inter la solita domanda rimbalza nel cervello: Perché? Perché i cinesi? Perché proprio qui, in un bar veneto? Perché?
È ancora presto per andare a prendere Mara: altro giro altra corsa, questa volta un velduccio pel me e un velduccio pel mio flatello.
Insomma, va tutto bene: eccettuate le cinesi anafolkloristiche l’ambiente è quello che cercavamo, il vino va bene, eccetera eccetera.
Sono ormai le 18.45, fra poco arriva Mara, ma già che ormai ci siamo e ci siamo abituati anche alla strana gestione un superalcolico a caso ci sta. Il mio superalcolico a caso è ovviamente Sambuca, mentre mio fratello prende (veramente a caso) un amaro Lucano.
La cinese prende due bicchieri, prende la bottiglia di Sambuca e comincia versare. Versa. Versa e non si ferma. La Sambuca scende fino quasi a riempire il bicchiere. Stessa sorte per il Lucano.
Ora di nuovo io e mio fratello ci guardiamo sgranando gli occhi: ma la cinese s’è bevuta il cervello o cosa? Un pistone così di Sambuca, l’acquolina in bocca, l’eccitazione sale, subentra una strana e preziosa stima per i cinesi che gestiscono bar veneti. Perché i cinesi non sanno cosa sia un rabosello, non sanno la differenza fra vino, birra e Sambuca, loro sanno solo qual è il bicchiere da prendere, e finché non lo riempiono non si fermano.
W l’ignoranza! W i cinesi! W i cinesi che gestiscono i bar veneti!!!

Alla fine è il momento dello scontrino: 3 verduzzi, 1 spritz, 2 amari: 7,40 euro.

Eeeeeeeh?!

OK, ragazzi, io vengo ad abitare qui!

L’interpretazione dei sogni (Un amore di cucciola)

Stanotte ho sognato che di portare a casa una cagnetta. Era di razza pincer (come il mio caro vecchio Paiù), ma dovevi vederla che carina che era, piccolina, tutta cucciolosa! Per metà sogno ho pensato a che nome darle: all’inizio era Milù, ma poi mi sono detto: "Si può dare a un essere vivente il nome Milù?!", così quando il sogno è finito non avevo ancora deciso. Proprio una bella cagnetta, un amore di cucciola, sì sì… e non solo! Le piaceva stare in braccio a me a pancia in su (cosa che Paiù odiava), e poi per tutto il sogno non ha mai abbaiato! (Evento, per un pincer!!!) Ah, era proprio una santa! Man mano che il sogno andava avanti ho cominciato pure a immaginarmela mentre passeggiavamo insieme senza nemmeno bisogno che la tenessi al guinzaglio, tanto era tranquilla e ubbidiente. Ho intravisto anche lo stress iniziale di insegnare a un cucciolo a non pisciare per casa, soprattutto sul divano… ma lei, la mia cagnolina bella, per tutto il sogno non ha mai pisciato in giro! Che santa!!! Dopo un po’ mi faceva pena perché doveva essere proprio piena, doveva scapparle proprio un sacco, così l’ho portata in bagno (non avendo ancora comprato una lettiera per lei), l’ho messa sulla tazza e lì sì che si è svuotata, finalmente!

A questo punto mi sono svegliato e mi sono finalmente reso conto che mi scappava la pipì. Insomma, pure i sogni me lo dicono: "Giò, alzati e va in bagno, per favore!"

Note intonate di una canzone stonata

Questo è un blog disimpegnato, ma a volte (e questa è una di quelle) non scoccia un po’ di serietà, almeno per un momento.

L’altra sera la mia bella ha riesumato dalla mia memoria questa canzone. È una canzone dei miei tempi, girata in radio per un’estate. Non so perché non sia finita prima d’ora nel mio iPod (a proposito di iPod… LUTTO!!! È già un mese che l’ho perduto in un bus navetta per Gatwick. Ormai zero le speranze che me lo riconsegnino) e nei miei CD mp3 che raccolgono le canzoni della mia adolescenza. Oggi, un terzo del 2009 già sfumato, riascoltandola con una diversa maturità mi rendo conto di quanto attuale e giusta sia, ancora, questa canzone.